Paolo Uccello è ritenuto il padre della prospettiva.
In lui sembrano coesistere un misto di gotico e di rinascimentale.
Poche le opere che di lui ci sono rimaste, poche le notizie della sua vita.
Poetico, sottile, solitario è Paolo.
La prima attività di Paolo ci è ignota e solo a mala pena ricostruibile dalle notizie che ne dà il Vasari.
Lo possiamo immaginare alla scuola di Gherardo Starnina e intento a studiare gli affreschi che Masaccio andava creando al Carmine; lo possiamo ugualmente pensare intento alla contemplazione dell’opera fantasiosa di Gentile da Fabriano, che in quegli anni a Firenze dipingeva la sua Adorazione dei Magi.
Il mondo notturno illuminato dagli ori e dalla famosa cavalcata verso una fantastica città, gli eleganti figurini dai ricercati abiti e dai copricapo complicati attirarono certo la sua attenzione e accesero la sua mente fantasiosa.
Il suo primo soggiorno a Venezia affinò questo gusto.
Il mondo di colore che gli venne incontro nella laguna dovette per forza colpire la sua immaginazione e la sua fantasia, il rilucere d’oro dei mosaici e delle tavole bizantine dovette essere una musica dolcissima ai suoi occhi di eterno sognatore.
Infatti, Paolo Uccello ricercherà in se stesso, nella sua mente poetica e sognatrice, quello che ha visto ed appreso a Venezia.
Se anche non resta più niente della sua prima attività, basta pensare alle cose della maturità per intendere come egli soprattutto guardasse in Venezia ai mosaici, perchè l’intarsio dei suoi colori puri è in qualche modo ispirato alla composizione delle tessere musive.
Dall’arte del Masaccio più di tutto egli intese la prospettiva e mediante lo studio di questa seppe trasformare la visione lineare-coloristica dei gotici, in visione volumetrico-coloristica.
Dunque domina il colore irreale di Paolo, che tinge di rosa le mura, di azzurro i campi e di lilla e di rosso.
La sua stravagante ricerca prospettica è visibile nel monumento equestre a Giovanni Acuto, condottiero dei fiorentini nella battaglia di Cascinà, affrescato in Santa Maria del Fiore nel 1436, dove la disciplina prospettica domina nel basamento, lasciando nel cavallo e nel cavaliere libero dominio al gioco dei volumi:”…un cavallo di terra verde tenuto bellissimo e di grandezza straordinaria sopra l’immagine di esso capitano di color verde terra…”.
Già fin da ora si nota la tendenza del pittore a trasfigurare in un mondo fatto di astrazione, quasi metafisica, la realtà.
La mente fantasiosa e bizzarra di Paolo non può e non sa rinunziare a questo suo godimento: osservare la natura, la realtà delle cose, pensarle in se stesso, esprimerle bizzarramente al di fuori di ogni realtà, non un surrealista come qualcuno ha voluto, ma irreale, non al di sopra dell’umano ma piuttosto al di fuori.
Incamminato sulla via delle conquiste rinascimentali, Paolo continua a dimostrarsi bizzarro e contraddittorio.
Egli continua a vivere in un mondo di sogno dove stanno poche forme quasi senza vita, coperte di zone di colore terso e puro, parti di una profondità spaziale studiata e con essa ed in essa immedesimate.
Ma il pittore non sa, forse non può rinunziare a nostalgici ritorni al passato, talora improvvisi che lasciano sbalorditi e incapaci di dare a Paolo il suo determinato posto nel campo dell’arte.
Abbandonato il volume costruttivo apparso nell’Acuto, eccolo tornare a forme quasi gotiche nelle due principesse liberate dal drago.
Sono esili, aggraziate figure, immote nei loro lunghi abiti panneggiati, dai profili delicati e fini, che tanto ricordano le pisanelliane principesse di S.Anastasia e di Louvre.
Intorno ad esse ancora si affaccia il misterioso ed affascinante mondo gotico della fiaba, mentre una prospettiva di campi simili ai giardini ricorda che Paolo è pur sempre il pittore della scienza prospettica.
E nel racconto non v’è niente di forte, di cruento.
La leggenda si è trasformata in fiaba, prima nella mente di lui poi nell’opera stessa.
Improvvisamente con un colpo d’ala Paolo torna alla rappresentazione prospettica dello spazio con un sepolcro trasversale, con un guerriero addormentato, con un potente Cristo risorto, nel grande occhio della cupola di Santa Maria del Fiore e nei quattro Profeti dell’orologio nell’interno della facciata.
E ancora tutto si dedica alla prospettiva, che diventa quasi vertiginosa in quella duplice arca del Diluvio che si trova in Santa Mari Novella a Firenze.
In quest’opera Paolo Uccello, come al solito usa dei colori particolari: i personaggi come pure lo sfondo sono verdi di quel verde che è tipico di Paolo.
In quest’opera Paolo cura molto la prospettiva ed il dettaglio perdendo, quindi, la visione generale dell’affresco.
Lo spazio risulta compresso e sospinto verso una vertiginosa profondità dalle pareti di due arche parallele, raffiguranti due momenti successivi della stessa storia.
In questo angoscioso cunicolo, fino all’estremo orizzonte, ogni personaggio vive i suoi stralunati e inutili tentativi di salvezza: gonfi cadaveri di annegati galleggiano accanto all’arca di destra, dalla quale Noè si affaccia per ricevere la colomba.
Nel 1457, Paolo Uccello ormai quasi vecchio, crea il suo capolavoro, dove nulla è naturale, dipingendo quella sua battaglia di S.Romano, in tre diversi momenti, rappresentati nelle tavole del Louvre, degli Uffizi e della Galleria Nazionale di Londra e che sola varrebbe a fare di lui un pittore eccellente.
Colpisce anzitutto in questi dipinti lo straordinario spettacolo dei colori, intensi e bizzarri nella scelta e negli accostamenti.
I pannelli non formavano in origine un’unica sequenza: la tavola del Louvre era infatti isolata su una parete laterale, quelle di Londra e degli Uffizi si trovavano invece accostate sulla parete di fondo e il loro rapporto era pressochè speculare, quasi l’una riflettesse, rovesciata la composizione dell’altra.
Nei tre dipinti domina una continua, deliberata contraddizione tra visione prospettica e colore, tra “contenuto” e “forma”: il tema drammatico e dinamico della battaglia si risolve in una totale staticità di volumi, sicchè cavalli e cavalieri paiono immobilizzati come per un improvviso maleficio (si noti in particolare come i personaggi non siano visti tanto cxome uomini, quanto piuttosto come armature, gusci metallici di “cavalieri inesistenti”).
D’altra parte, ogni cavallo, tornito nei suoi volumi e collocato puntigliosamente sul palcoscenico dei primi piani, si appiattisce nelle stesure dei colori compatti, che annullano anche ogni effetto di profondità; una penombra crepuscolare avvolge il remoto paesaggio, che è simile a un fondale di teatro, mentre un’irreale luminescenza emana dalle zone in primo piano.
Si aggiunga che le armature erano tutte realizzate in “foglia d’argento” lucente e si avrà un’idea dell’affetto di spettacolo multicolore e allucinante che il complesso voleva originariamente suscitare.
Non certo pittura di storia dunque, ma evocazione surreale di un torneo cavalleresco, quale soltanto un uomo già fuori del medioevo poteva immaginare con così poetica ambiguità tra umore grottesco e nostalgia di un “fasto” “cortese” tramontato.
Con il sopraggiungere della vecchiaia sopraggiunge pure la tristezza, la solitudine e la povertà.
“…Truovomi vecchio e sanza usamento e no mi posso esercitare e la dona inferma…”, confessa il pittore a se stesso e al catasto nel 1469.
E’ ormai in attesa della morte che giunge a lui nel dicembre 1475, dopo che in novembre di quello stesso anno ha fatto testamento.
L’arte di Paolo va considerata prima di tutto come poesia pura e poi come vittoria completa sulle sue incertezze.
LUCIA GHIRARDI