Il colore in Piero della Francesca di Lucia Ghirardi

Nella pluralità delle esperienze pittoriche che fioriscono intorno alla metà del ‘400, l’arte di Piero della Francesca si impone come una delle più conclusive espressioni della prima generazione rinascimentale.
Ascendenti diretti sono soprattutto Masaccio e Domenico Veneziano, di cui egli sintetizza in una nuova dialettica le rispettive conquiste prospettiche: l’una di natura plastica, l’altra di natura coloristica.
Nato a Borgo San Sepolcro tra il 1410 e il 1420, e quivi morto nel 1492, Piero si educa alla pittura a Firenze, accanto a Domenico Veneziano.
Tutta l’opera di Piero dimostra quanto fruttuoso sia stato il suo non lungo tirocinio fiorentino e rivela come egli allora penetrasse non soltanto la lezione di Masaccio e di Domenico, ma anche quella di Paolo Uccello e di Beato Angelico.
Eppure Piero doveva sublimare tali esperienze in una pienezza di stile così lontana dalla predilezione disegnativa fiorentina, che la sua pittura restò incompresa e quasi sconosciuta nella capitale toscana.
Il suo itinerario tocca, con frequenti ritorni a Borgo San Sepolcro, Ferrara, Rimini, Ancona, Pesaro, Bologna, Arezzo, Roma, Perugia, e, soprattutto, Urbino, dove Federico da Montefeltro lo considerava come uno dei più preziosi ornamenti della sua raffinatissima corte.
Una delle sue prime opere è “Il battesimo di Cristo”, dipinto verso il 1445 e oggi conservato nella Galleria Nazionale di Londra.
Profondamente radicato al paesaggio della sua terra, Piero trasforma il Giordano in un ruscello che scorre sinuoso in un anfiteatro di colli maculati di colture e punteggiato da alberi modesti.
I personaggi sono nobili, i gesti lenti: Cristo riceve con severo raccoglimento l’acqua lustrale, Giovanni battezza, i tre robusti angeli dai volti pieni e rosei assistono placidi al rito.
Più lontano, un neofita si spoglia in attesa del suo turno, mentre strani personaggi barbuti commentano il fatto.
Ogni cosa è calma, calata in un bagno di luce tersa e ferma che tornisce il tronco dell’albero come il torso di Cristo, imbeve di uguale candore la mistica colomba e la nuvola errante nel cielo, intona in un solo largo accordo la pur vasta gamma di colori e dà l’esatta misura del vicino e del lontano.
Tale peculiarità dell’arte di Piero può esprimersi nella nota definizione: “sintesi prospettica di forma-colore”, sintesi in cui ogni forma si accampa salda e luminosa in un ben misurato spazio, e si connette alle vicine senza contrasto, in una pacata e ferma totalità di visione.
Altra opera molto importante di Piero è la “Flagellazione di Cristo”.
La composizione è spartita in due zone non simmetriche, ma legate da quel rapporto che i Greci, ritenendolo perfetto, chiamavano “aureo” e che gli artisti del Quattrocento venivano ora riscoprendo nella sua “divina” armonia.
A considerare poi attentamente il quadro, tutta una serie di ben calcolate proporzioni crea un tessuto geometrico da cui nasce l’evidenza di ogni forma e il suo intimo legame con le altre.
Il colore imbevuto di luce trasfigura la razionalità dello schema dandogli quel senso di circolazione continua del raggio solare e dei suoi infiniti variabili riflessi sulla materia: è questo l’unico elemento vivo e mosso di un quadro dove i personaggi sono invece fermi ed impassibili, quali i protagonisti di un fatto ormai fatalmente compiuto e che perciò nessuna azione può modificare.
Così non la posa di Oddantonio e dei consiglieri, ma i passaggi dell’intensità cromatica e la direzione diagonale della prospettiva rendono evidente il vincolo allegorico tra il gruppo in primo piano e la scena della flagellazione; e, questa, immersa nei glauchi riflessi di una luce indiretta, dà un senso di lontananza non solo nello spazio, ma anche nel tempo.
In tale spettacolo di forme, i gesti crudeli assumono la fissità di un simbolo e divengono anch’essi partecipi di quel clima di catarsi lirica, che è la più profonda ragione d’essere di questo capolavoro.
Intorno al 1450 l’artista è a Ferrara, per dipingervi un ciclo di affreschi che tanta importanza avranno per la formazione della scuola ferrarese; poco dopo egli si reca a Rimini alla corte del Malatesta.
Ma già nel 1452 lo troviamo ad Arezzo, intento a decorare il coro della chiesa di San Francesco con quelle storie della “Leggenda della Croce dai tempi di Adamo fino alla guerra di Eraclio contro i Persiani”, Piero scelse quegli episodi che più si adattavano ad uno spiegamento spettacolare di forme e ad una equilibrata rispondenza delle varie composizioni.
La vittoria di Costantino si dispiega ai nostri occhi come una trionfale parata in una splendida giornata estiva.
La cavalleria di Costantino, giunta presso il Tevere, frena i destrieri prima del guado, mentre sull’altra riva già fugge l’esercito di Massenzio.
Solenni e statuari cavalieri si accalcano in breve spazio, situandosi in una lucida sequenza di piani; si veda per esempio l’intrico delle zampe, disposte con un ritmo serrato e sonoro.
Il precedente di Paolo Uccello, qui chiaramente avvertibile, non fa che confermare la sostanziale divergenza delle due concezioni prospettiche:
l’una statica e frammentaria, l’altra largamente sintetica e sensibilissima alla verità dell’effetto luminoso.
Dopo Arezzo Piero si recò a Roma ma nulla è rimasto dei suoi affreschi vaticani.
Poco dopo il 1460 egli è di nuovo in Umbria.
Agli anni estremi dell’attività di Piero corrisponde un intensificato approfondimento dell’intimità tra luce ed immagini che nasce dalla conoscenza diretta dei quadri e dei pittori fiamminghi, ormai presenti in buon numero ad Urbino e in altri centri italiani.
Una più costante e minuziosa attenzione alparticolare, una più raffinata invenzione di toni e di accostamenti contrassegna per esempio la “Madonna di Senigallia”, solennemente architettonica nell’incastro dei volumi, preziosa negli accordi tra il rosa e il salmone, i verdi azzurri, i celesti ardesia.

La piena luce della campagna inonda invece i due ritratti di Federico da Montefeltro e della moglie Battista Sforza (Firenze-Uffizi), che recano sulla superficie posteriore due vastissimi paesaggi ispirati alla reale natura del Montefeltro.
In queste opere Piero non idealizza i personaggi ma li rappresenta tali e quali con tutti i loro difetti.
L’immagine è curata e perfetta, anche il paesaggio (tipico paesaggio toscano) è molto curato.

LUCIA GHIRARDI